ACE — L’ULTIMO INNING (un racconto by @kork75)

in Italy2 months ago

Il cono di luce dei riflettori allo xeno squarciava il campo. Era una lama di luce cruda, lattiginosa, che rendeva l'erba di un verde quasi fluorescente. Dagli spalti scendeva un muro di suoni: il ruggito strozzato della folla, il fischio metallico di una birra che veniva aperta, la raffica secca dei commenti.

Nell'aria, un cocktail acre: il fumo stantio mischiato all'odore pungente del ferro bagnato, la terra rossa del diamante (il clay di casa base) e il profumo familiare, quasi rassicurante, del cuoio da baseball, oliato e sfibrato da anni di battaglie. Il sudore che gli colava lungo le tempie non era fresco; era l'unto salmastro accumulato da otto inning di fatica.

Il jingle della Major League Baseball, sparato a volume assassino dalle casse, si interruppe bruscamente, lasciando un vuoto assordante. Lo speaker si schiarì la voce, e il microfono amplificò il rumore come un colpo di tosse sordo: «Ultimo inning. Due out. Basi piene. Il punteggio era zero a uno per gli ospiti.»

image.png
Creative Commons

Ace si alzò lentamente. Le ginocchia scricchiolarono – un suono che sentì solo lui. Camminò verso il box di battuta come se l’aria fosse densa, liquida. Il guanto stretto in mano era il suo piccolo mondo.

I compagni tacevano, ma il loro silenzio pesava più di mille urla. Mike tamburellava le dita, nervoso. Joe gli lanciò uno sguardo a metà tra speranza e paura. Miller si leccò le labbra, secche. Tutti sapevano cosa Ace poteva fare: il fuoricampo, la leggenda. O il vuoto.

In panchina, il coach lo osservava, non con timore né con mera aspettativa. Lo guardava come si guarda qualcosa che si conosceva troppo bene: con rispetto e un filo di pena. Aveva allenato decine di ragazzi, ma Ace era diverso. In lui c'erano fuoco, talento, e un'ombra che non se ne andava mai. Ace giocava come viveva: da solo, contro tutti, contro sé stesso.
«Non farlo», mormorò Joe, senza voce.
Ace non rispose. Non li guardò. Sapeva che, se lo avesse fatto, sarebbe crollato. Il cuore gli batteva forte, come se volesse sfondargli il petto. Il coach serrò la mascella. Lo conosceva: quando Ace taceva, quello era il momento più pericoloso.

Lo speaker gracchiò il suo nome, metallico e distorto. L’onda del pubblico arrivò come vento caldo e viscido, ma non lo toccò. Sentiva solo il legno della mazza, freddo, quasi vivo.

Fece un mezzo swing di prova, un gesto secco e forzato che non liberò la tensione. Scosse appena la testa e si piantò nel box. Inspirò troppo forte, e l'aria gli bruciò nei polmoni.

image.png
Creative Commons

Primo lancio. Strike. Ace non si mosse. Il corpo lo tradiva, le spalle dure come pietra.
Nella sua testa, risuonò la voce del coach di un anno prima, tagliente come i fari dello stadio: «Se ti aspetti che lancino un cambio, lanciano un veloce. Se ti aspetti un veloce, lanciano fumo. Sei il battitore più forte, Ace, ma il più prevedibile. Tutti sanno cosa vuoi: l'Home Run.»
Il coach chiuse gli occhi. “Rallenta”, pensò. “Non devi vincere contro te stesso.”

Secondo lancio. Ball. Ace lasciò uscire l’aria piano. Il peso del mondo scivolò via, un poco.
Il ricevitore avversario, in ginocchio, indicò con il guanto un punto esterno, quasi a sbeffeggiarlo. Il lanciatore annuì appena. Erano sicuri.
Ora, il pensiero di Ace era nitido, gelido: Loro si aspettano che io giri. Il lanciatore lo sa. Il coach avversario lo urlerà. «Non buttare! Non buttare!» Perché in questa situazione, con due eliminati, il bunt è la cosa più stupida. E proprio per questo, è l'unica cosa che non possono parare.
Terzo. Il pitcher caricò. Ace lo sentì più che vederlo: il rumore del guanto, il piede che affondava, il colpo secco dell’aria tagliata. Il corpo si preparò. Schiena tesa. Dita che stringevano troppo. Il cuore diceva “ora”. L’ego diceva “fuoricampo”. Tutti lo volevano.

Poi ebbe uno sguardo: Joe in seconda. Il viso di Mike. Quel tremore negli occhi. Ace vide tutto in un istante e capì: se avesse colpito forte, sarebbe rimasto solo con la sua gloria o il suo fallimento. Stavolta, non aveva bisogno di distruggere il muro, ma solo di abbassarlo per farli passare. Non era il tiro più forte, era il tiro che non si aspettavano.

Frenò. Smorzò.

Un istante fu sospeso. Ci fu un contatto secco. La palla, anziché schizzare via, cadde morta. Rotolò, lentissima, proprio dove il prima base si era allargato, scommettendo su una battuta potente. Era terra di nessuno. Un buco che non si poteva chiudere.
Un bunt.

Il pubblico non capì subito. Ci fu un lungo, strano 'Oh...' collettivo. Joe partì. Il corridore in terza era già in corsa, non costretto all'attesa. Ace lo seguì solo con gli occhi. Non guardò la palla, guardò la corsa.
Terza. Casa. Scivolata. Polvere che salì.
Pareggio. Uno a uno.

La folla esplose come un tuono spezzato. Ace sentì vibrare il campo sotto i piedi, ma dentro era silenzio. Mike sorrise. Joe rise, quasi piangendo. Miller rimase fermo, stupito. Il coach non esultò, ma lo fissò. Aveva visto la scelta. Aveva visto il sacrificio. Aveva visto il suo Ace, l’imprevedibile, che per la prima volta aveva usato il suo talento contro la sua stessa natura. Per la prima volta, Ace non aveva scelto sé stesso.
«Un po’ tifavo per lui», ammise Miller. «Nessuno vuole che il suo ultimo turno sia uno strikeout. Ma prima deve lavorare per la mia squadra.»

Poi arrivò la fine. Un punto degli altri. Uno a due. Sconfitta.

image.png
Creative Commons

Ace restò immobile. Niente grida. Niente rabbia. Solo le mani vuote, il cuore pieno di qualcosa che non sapeva nominare.
Odore di pioggia, cuoio bagnato. Neon che ronzavano come zanzare.
Doccia lenta. Acqua tiepida. Silenzio.

Si sedette sulla panca. La maglia mezza strappata. La pallina girava tra le dita. Un tic nervoso, regolare.
La porta si aprì. Il coach. Cappellino in mano, passo lento. Non parlò subito. Lo guardò. Vide tutto.
«Il tuo problema, Ace. Il più grande.»
Ace non alzò la testa. «Vai, spara.»
«Sei il migliore a isolarti. Chi si avvicina, lo spingi via. Sempre.»

Ace abbozzò un mezzo sorriso, stanco. «Non mi serve nessuno per colpire una palla.»
«Già. Ma oggi l’hai fatto. Hai scelto loro. Non te.»

Ace sollevò lo sguardo. Occhi lucidi, fermi. «Non so come si fa a restare.»
Il coach si passò una mano sul viso, come chi era stanco di dover essere sempre quello forte. «Lo sai, Ace. Solo che fa male.» Fece un passo verso di lui. «Vedi, io non ti ho mai voluto cambiare. Ho solo sperato che imparassi a vedere cosa c'è dietro la tua rabbia. Perché lì dentro c'è anche il cuore.»

Ace abbassò lo sguardo. «E se poi lo perdo?»
«Lo perdi solo se smetti di provarci.» La voce del coach si fece più bassa, quasi un soffio. «E io sarò ancora qui. Anche quando sbagli.»
La pallina gli scivolò via. Rimbalzò piano. Il coach la raccolse, gliela rimise in mano.
«Domani si ricomincia. E non sei solo.»

La porta si chiuse.

Ace guardò la scritta sull’armadietto di un compagno e gli diede un secco pugno. “Lascia scivolare — ma resta in partita.”
Sollevò il viso. Non era un sorriso, ma una linea dura e decisa. L'ombra non era sparita, ma ora aveva una crepa, e Ace stava guardando attraverso. Non era gloria. Era cicatrice. Aveva perso, ma, per la prima volta, non da solo.

Steemit blog.jpg

512px-Steemit_Logo.svg.png
Greetings by @kork75👋

Sort:  

Qua' a Cuba il baseball è una religione

Ciao, spero di aver ricreato l'atmosfera giusta in questo racconto. Grazie per aver lasciato un commento. Saluti by @kork75

Upvoted! Thank you for supporting witness @jswit.