Una (bestiale) notte al museo. Parte seconda.
Ben ritrovati!
Ci siamo lasciati, suppergiù ventiquattro ore fa, mentre parlavamo di Relic, un bel filmetto fanta-horror, firmato nel 1997 da Peter Hyams (il quale lo ha a sua volta tratto da un romanzo di Douglas Preston e Lincold Child). Se volete sapere nel dettaglio cosa abbiamo fin qui scoperto (ve lo consiglio caldamente), vi basterà seguire questo link.
Quello che posso dirvi qui e ora, in due parole, è che ci è toccato far conoscenza con il Kothoga (un mostro mutante nato in Amazzonia e approdato accidentalmente a Chicago), che si aggira nottetempo nelle sale del Field Museum of Natural History e massacra chiunque incontri. A lui si oppongono solo un poliziotto e una giovane scienziata, in una lotta furibonda a cui, naturalmente, sopravviveranno a stento.
Ora tenetevi forte perché da qui il gioco si fa un po’ più duro: dalle suggestioni del grande schermo passeremo alle intricate vicende della genesi narrativa e del dietro-le-quinte, e dalla trama immediatamente visibile ci sposteremo sul piano delle interpretazioni e delle speculazioni… Siete pronti?
Buona lettura.
PS
Naturalmente, le immagini riportate in questo post sono tutte di mia proprietà.
…Che l’intreccio romanzesco di Preston & Child sia lo sviluppo di un nucleo – uno schema narrativo – invulnerabile e immutabile, è testimoniato dalle sue vicissitudini produttive. Per trasformarlo in un pezzo di cinema, il buon Hyams reclutò un intero plotone di Navy Seal della sceneggiatura, armati di cacciavite e seghe elettriche. L’adattamento giunto sul grande schermo nel 1997 somiglia difatti più a un lavoro di carpenteria che a una lineare trascrizione, e – come insinuavamo poco fa – proprio in questo sta la ragione di maggior interesse dell’impresa. Lo script messo a punto da Amy Holden Jones (la cui versione, a onor del vero, era aderente all’originale) John Raffo, Rick Jaffa e Amanda Silver sembra, in effetti, gravitare intorno a una domanda da corso avanzato di scrittura creativa: quanti elementi posso modificare in una storia prima che questa cominci a non somigliare più a se stessa? La risposta fornita dai quattro professionisti dell’affabulazione è indubbiamente: molti. Personaggi-chiave che scompaiono e altri che spuntano dal nulla, alcuni cambiano nome o sesso, quasi tutti mutano ruolo e posizione nella rete delle relazioni reciproche. La location si sposta da New York a Chicago, poi i Kothoga (che nel libro sono una tribù amazzonica) diventano il Kothoga (cioè il mostro), in sostituzione dell’impronunciabile Mbwun, che avrebbe annodato la lingua degli attori e offeso l’orecchio anglofono degli spettatori. Billy e “il fratellino”, i due bambini che nel libro vengono decapitati dal bestione mangia-ipotalami, nel film saranno risparmiati in omaggio alle Leggi Non Scritte della Motion Picture Association of America, ovvero a quelle del buon senso commerciale. Solo Stephen King e pochi altri possono concedersi il lusso di fare a spezzatino i pargoletti senza perdere lettori e/o spettatori… Dei tanti, tantissimi, dettagli – se così li si può chiamare – che vengono cancellati, rimaneggiati, ritoccati, l’unico che non riusciamo ad archiviare con noncuranza è l’agente FBI Aloysius Pendergast, protagonista quanto mai carismatico che nella pellicola viene purtroppo sovrascritto e sostituito da quella che nel romanzo è solo la sua spalla: il tenente di polizia Vincent D’Agosta, appunto. Rendiamo omaggio alla convinta interpretazione di Sizemore, ma il buon Aloysius un po’ ci manca. Descritto come una specie di imperturbabile e determinato Andy Wharol (un elegante beccamorto albino), il federale creato da Preston & Child divenne (ed è tutt’ora) protagonista di una personale saga romanzesca che ha avuto un piccolo seguito anche qui da noi… Ma di questo, eventualmente, si tornerà a parlare in futuro.
È almeno dai tempi di Rosemary Jackson e del suo Fantasy: The Literature of Subversion (1981) che intrecciare psicoanalisi e sociopolitica nell’interpretazione dell’horror-fantastico è venuto di moda. Alla fine degli anni Settanta, a dire il vero, cine-critici come Robin Wood (American Nightmare: Essays on the Horror Film, 1979) avevano già provveduto, per esempio, a fare degli zombie i portatori di rivendicazioni anti-capitaliste – spianando la strada a più tarde divagazioni post-umane “sovversive” come il celebre Cyborg Manifesto neofemminista di Donna Haraway (1991); iniziative che, comunque, non hanno intaccato troppo a fondo le originarie speculazioni freudiste che risalgono tanto al caro vecchio Das Unheimleich di Sigmund in persona (1919), o al meno elegante Der Doppelgänger di Otto Rank (1925)… Inconscio e biopolitica, roba da mandare in sollucchero gli epigoni della Scuola di Francoforte (il “capitalismo-vampiro” di marxiana memoria, quante volte lo si trova citato!)… Una calda zuppa di “militanza filosofico-immaginifica” in cui furbacchioni di genio come il compianto George Romero o John “Halloween” Carpenter (talvolta ghignando sotto i baffi) hanno spesso intinto la loro mollica di pane. A questo filone – per il quale le icone dell’orrore non sono che semplici allegorie di qualcos’altro – è forse da preferire una lettura meno telefonata, che trova proprio in opere dall’apparenza inoffensiva come Relic la sua più chiara manifestazione.
L’horror ha raramente un messaggio nel senso rigidamente ideologizzato che si dava a questo termine in passato; ciò che lo rende interessante – ovvero sintomatico – è semmai l’ostinazione con cui ripropone forme, maschere, stereotipi narrativi o, come si accennava nella scorsa “puntata”, mitemi. È su questo terreno che tende a rivelare, almeno in parte, le forze segrete che muovono le sue favole carnivore.
Nel caso dell’opera di Preston, Child & Hyams, l’indizio più interessante ci è offerto dal saggio Pretend We’re Dead di Annalee Newitz (2006). Nella sua lettura, gran parte dei racconti orrifici della prima metà del Novecento «associano l’incontro fra culture europee e caraibiche a diaboliche macchinazioni di esseri deformi e immortali» e «i bianchi di questi racconti vivono una duplice ossessione: da un lato guardano a un oscuro passato in cui i neri erano liberi e potenti, dall’altro sono sgomenti di fronte alla prospettiva di divenire spettri condannati a vagare tra individui che si sono affrancati dopo una lunga schiavitù». Chi conosce film come La mummia (Stephen Sommers, 1999) o Long Time Dead (Marcus Adams, 2002), sa che la parola “caraibici” può essere sostituita con “mediorientali”, “asiatici” o “amazzonici” senza che nulla cambi in misura significativa. Alle società pre-industriali, a quelle colonizzate, è affidato il compito di incarnare gli incubi dei colonizzatori industrializzati, insieme ai loro desideri. Incubi e desideri che riaffiorano non come psicoanalitici “perturbanti” ma – secondo il dettato mitico – sotto forma di mostri chimerici e abnormi… Curioso, che gli autori di Relic ne abbiano creato uno usando l’ingegneria genetica, la più recente conquista della razionalità tecnoscientifica “occidentale”, e che l’abbiano messa proprio dentro un museo, che di quella razionalità è l’archivio, per così dire, istituzionale…
A presto.
Davvero una bella analisi, diversa dalle recensioni che sono abituata a leggere. Persino a me, che sono naturalmente poco incline ad apprezzare il genere horror, viene voglia di vedere il film e leggere il libro, per consapevolezza.
Quello che scrivi è vero, diciamo che le esigenze dei due mondi (letteratura e cinema) sono effettivamente diverse, il pubblico cambia anche in modo radicale. Il cinema deve essere altro per forza di cose, per cui il riadattamento ci sta. Che poi questo riadattamento si trasformi in un nuovo prodotto completamente diverso, beh...a volte fa un po' rabbia, per chi vorrebbe la fedeltà assoluta è una forma di tradimento; ma è anche una forma di creatività che può portare a risultati ottimi (nella diversità).
Visto che in gioventù sono stata una fan sfegatata del Signore degli Anelli, ad esempio, posso dirti che ho amato Peter Jackson nei suoi riadattamenti cinematografici, anche soltanto per avere eliminato Tom Bombadill, personaggio che nel libro ho detestato! Insomma, viva i riadattamenti, non sai mai cosa aspettarti in questo modo :P
Cara @nawamy, grazie davvero! Hai assolutamente ragione. Di fatto la traduzione da un medium all'altro è di per sé tanto problematica quanto affascinante. In molti casi è ragionevole supporre che non sia realmente possibile... Se non a condizione di produrre un'opera completamente nuova e diversa. Nel caso di questo romanzo, viceversa, la traccia narrativa (diciamo, l'equivalente della sua colonna vertebrale) era sufficientemente semplice da poter essere in qualche misura "conservata" anche rinunciando a molti elementi... In ogni caso (a prescindere, naturalmente dai gusti personali e dalle altrettanto personali emozioni/riflessioni che una storia suscita in noi), è sempre interessante analizzare il processo di "traduzione" e chiedersi come l'avremmo realizzato noi...
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