Il rituale africano dell'apparizione.
La suggestione è la sorellastra della percezione, insieme girano mano nella mano, si muovono leggiadre fra le colline della distorsione della realtà, capovolgendo e odiando la credibilità.
La tangibilità per quanto possa sembrare semplice e concreta è complessa, permettendo alle due sorelle di comparire offuscando la vista e annebbiando i sensi.
La percezione è la più anziana e permette tramite l’utilizzo della sensorialità di comprendere l’effettività esterna, essa, a volte può essere fallace, in una creatura fragile e pregiudizievole come l’essere umano, quando le paure offuscano le capacità cognitive di questa strana creatura, coraggiosa a parole pavida, ai fatti, in numerose occasioni.
La sorellastra, la suggestione, afferra saldamente i polsi della percezione, quando quest’ultima diventa distorta, trascinandola nel fango dell’irrazionalità. Il fenomeno può riguardare il singolo oppure diventare una deriva di massa, se i luoghi comuni che fanno girare il mondo diventano irrazionali, non assoluti o quanto meno opinabili.
I marosi della disperazione possono trascinare una barca piena di vite umane allo scoglio dell’odio, facendo presumere che il problema sia la protezione dei confini, delle linee, degli spazi, quando la razionalità a parti opposte farebbe intraprendere lo stesso viaggio a te, caro ipotetico percettore delle tue convinzioni, se fossi in una condizione di difficoltà.
Il pedone insulta il guidatore quando cammina e inveisce contro il conduttore quando si invertono i ruoli, l’incongruenza è madrina dell’uomo, avendolo battezzato con questo strano potere di essere più persone nello stesso corpo.
È facile distorcere l’oggettività dalla comodità di una poltrona provinciale e da uno schermo a colori che deforma le sfumature della quotidianità altrui.
È il mare che porta alla deriva i corpi esanimi o è l’uomo che sta viaggiando alla deriva del sentito dire e delle proprie ossessioni e paure da sempre?
Il rischio di scivolare in spiagge fatte di desolazione e di deprivazione del sentimento è sconfinato e gravoso di responsabilità mai assolte.
Tre candele di cera grezza e odorosa tremano dinanzi ad Abeba, buio intorno, essa desidera varcare i confini tra l’esistenza e il sonno eterno, volendo comunicare con i defunti.
Un gioco antico tramandato da generazioni costituito da credenze mistiche, la savana crea lo sfondo al vetusto cerimoniale.
Il suo compagno era passato a miglior vita in una dell’infinite faide e dispute fratricide per il dominio dell’immenso territorio africano: bello, aspro, ricco e misero allo stesso tempo. Fuoco e acqua si confondono simili a bellezza e povertà nel continente dimenticato; i contrasti sono forti e brillano come scintille in un crepitio di legna che arde.
La donna era vestita di bianco per rivendicare una purezza che le permettesse di affacciarsi alla porta dell’altro mondo senza essere rifiutata.
La leggenda tramandatole dalla madre per lo svolgimento del Rito dell'Apparizione consisteva in quanto segue:
Tre candele, fango del profondo fiume setacciato otto volte, il calare del sole di una notte senza stelle, il silenzio assoluto, la solitudine e una frase, nel suo dialetto madre, che recitava:
“Non ho paura della morte, non ho paura delle carne che diventa carbone, della polvere che si perde nel vento, sento dentro il mio cuore il bisogno di conoscere l’antico segreto degli antenati che trascende il conosciuto umano”.
Le lacrime bagnavano il volto della giovane il giorno che le annunciarono la dipartita del suo sposo, stanca e repressa per l’ennesima guerra ingiusta e violenta, che deprivava la sua anima della spensieratezza di una ragazza di diciotto anni nell’età del bisogno di grandi verità e appagamento sensoriale.
Vivere era arduo e l’idea di poterci parlare un’ultima volta la tormentava, ricordava le prese di posizioni, vane, per chi dovesse andare a prendere l’acqua al pozzo e ora rimpiange persino i momenti negativi della relazione.
La quotidianità e la routine del volto di chi hai amato si presentano con il passare delle ore più sfocate, essa non vuole dimenticare il suo amato, la sua voce, il suo modo di fare. Come la non vedente tocca il viso per riconoscere i tratti, Abeba muove le mani nell’aria immaginando le emozioni, cercando di renderle concrete, rotta dal dolore.
La credenza, unita alla speranza di discutere attorno ad un fuoco con l’uomo, come se nulla fosse successo, e quella pistola non avesse scaricato l’intero freddo piombo contro il cuore del suo amato, uccidendolo, era diventata una febbre fatta di suggestione e bisogno di credere che fosse possibile compiere la magia.
La notte era perfetta per mettere in atto la depressa superstizione di evocare il consorte. La donna nel buio della vegetazione prese in mano tre candele e le dispose per formare un triangolo in cui porsi esattamente al centro. Aveva preparato un vaso di terracotta, regalo di nozze datole in dote, colmo di melma del fiume raccolta la mattina stessa.
Le mani color ebano della giovane si immergono in quella oscura fanghiglia e fanno presa su di essa.
Abeba si copre il suo bel viso con il liquido, creando una maschera di terra che l’avrebbe dovuta nascondere dall’oscurità dell’al di là.
Era credenza che per incontrare gli spiriti servisse coprirsi la faccia, poiché non degni di fare scorgere il volto da essi.
Il fango colava sul corpo della giovane, ognuno ha le sue usanze: il mascara compre l’ossessione di apparire belle, quest’ultimo copriva dalla paura di essere inghiottita e ingurgitata nel mondo dei defunti, l’ultimo può sembrare ridicolo, ma credetemi, parte dall’irrazionalità in maniera identica al trucco occidentale.
Ditemi una sola ragione razionale per apparire come non si è, l’unica è l’insicurezza o il luogo comune di sembrare carini agli occhi degli altri o “accettabili”, allo stesso modo la giovane si affida ad antiche superstizioni per risultare “accettabile” agli occhi dei morti.
Non siamo così dissimili, i punti di giuntura sono superiori alle dissonanze.
Tutto era pronto per recitare l’antico aforisma tramandato da generazioni e generazioni.
Una lunga ombra si levò dalla foresta distruggendo la vegetazione, un’oscura canzone tribale suonava violenta nei timpani della giovane, che impaurita chiuse gli occhi, la lingua si seccava in gola, le fauci erano immobili come l’avorio radicato alla radice del pachiderma.
Si sentiva come avvolta da incubi atroci e introspettivi che stringono l’intestino il una gelida morsa.
Il cuore iniziò a battere violentemente, una sensazione glaciale avvolse la spalla della poverina donandogli la sensazione di un lieve tocco, ormai in prenda al panico.
Gli uccelli, soliti a svegliarsi solo alle prime luci dell’alba, scapparono rapidi in un pigolio stridente di corde di violino arrugginite.
Essa in preda al terrore assoluto lanciò un grido e apri gli occhi e danzante come cenere al vento, di fronte a sé, vide lo sguardo di lui. Il marito le sfiorò la testa:
Pistole fumanti, rabbia cieca, violenza innaturale, crudeltà smodata, mano e coda di diavolo.
Niente può descrivere cosa le fece vedere il suo compagno, che gli trasmise esattamente cosa aveva provato prima di morire, straziato da un odio umano non avente paragoni e le disse: “Epuka! Epuka(*)!” Con voce perentoria e ruvida.
Run, fluchten, escapa, fuggi, vola via, muovi le gambe in fretta, vattene, spicca il volo figlia dell’africa. Non ci sono bandiere né aste quando si tratta di sparire rapidi
La giovane si svegliò che era giorno inoltrato, è difficile dire se fu sogno, menzogna o suggestione. La percezione e la convinzione giocano infantili scherzi a tutte le latitudini, è facile farsi trasportare dall’irrazionalità per motivi diversi, situazioni e momenti differenti.
I comportamenti umani più istintivi non amano le coordinate e le posizioni precise, ci sono sentimenti così radicati che sono comuni in ogni cultura, come, appunto, la percezione, la suggestione, la paura, che ci rendono stelle gemelle divise dagli emisferi, nonostante l’immagine che vediamo allo specchio ci sembri diversa, frutto appunto delle nostre sensazioni.
Siamo fratelli separati alla nascita, siamo sangue dello stesso sangue senza esserne a conoscenza, divisi subito dopo il parto e sputati, simili a palle di cannone, in ogni parte del globo.
Tutti abbiamo dei bisogni che ci spingono a credere in quello che vogliamo vedere: Abeba desidera ardentemente rivedere il suo uomo, tanto da illudersi dell’esistenza, non comprovabile di qualche ente superiore, attanagliata dal bisogno ardente di ricongiungersi con quel filo spezzato, allo stesso modo un uomo occidentale dal suo sofà e attraverso la sua televisione può autoconvincersi che i suoi problemi vengano da delle linee immaginarie sul terreno e non dal suo conflitto interiore e dal suo bisogno di ordine che lo spinge a poche domande scomode e a respingere tutto quello che è idealizzato come diverso e fonte delle sue problematiche.
Paradossalmente questo sentimento di insicurezza sarebbe il reale collante umano, se tutti facessimo un passo indietro e ammettessimo le nostre debolezze.
Abeba, spaesata e impaurita mostra i suoi occhi alla madre raccontandogli di quella nottata, fatta di magia e sensazioni che superano la normalità umana.
Il viso dell’anziana signora si mostrava comprensivo, nonostante avesse fatto giurare alla figlia di non provare mai a fare il Rito dell’apparizione, credendo alle parole della figlia, la donna diede una chiave di lettura alla situazione molto particolare:
Raccontò alla giovane che due settimane prima aveva scorto un cartello dove vi era scritto: “Fuggi da qua e cerca un luogo migliore” e sullo sfondo compariva una nota città europea, che la signora nella sua genuina ignoranza non conosceva. Questo venne visto come un evidente segnale premonitore dalla coppia.
Abeba la giornata seguente si informò riguardo alla possibilità di lasciare la sua terra natale alla volta di un destino migliore. Essa aveva interpretato la premonizione del marito, unite alla coincidenza del cartello come un chiaro segnale che la felicità risiedeva al di là del mare in una terra promessa fatta di zuccherose opportunità, proprio come i suoi amati datteri.
In città si decantava di come il vecchio continente fosse il mondo delle possibilità, dove chiunque poteva raggiungere le giuste e sacrosante soddisfazioni.
Lei aveva visto il coniuge perire per una causa inutile e sapendo che l’avrebbe voluta proteggere sempre non voleva che il suo trapasso fosse stato vano. Doveva andarsene.
Dopo numerose ricerche si mise in contatto con due individui, all’apparenza poco affidabili, che in cambio di una cospicua somma di denaro le promettevano di attraversare il Mar Mediterraneo con facilità e di giungere in una terra impastata di miti e di false speranze, che agli occhi ingenui di Abeba sembrava il paradiso.
Un posto senza la guerra, la fame, dove magari potere creare quella famiglia mai avuta e tanto desiderata.
Il viaggio:
Le grandi città dell’africa centro-orientale si presentano come un ammasso di accenno di nuovo, sapore di ex colonialismo e lamiere che fondono al sole del mezzogiorno, che si posiziona allo zenit nel soleggiato equinozio equatoriale, il resto è una matassa intricata di uomini e donne che vivono sull’equatore in equilibrio su una fascia immensa, ma instabile.
Il caldo era torrido, uomini, donne, bambini ammassati come il letame in un vecchio camion residuato di qualche vecchia epoca coloniale, il terreno era sconnesso e le ossa scricchiolavano al passaggio delle ruote sopra le buche e crepe africane.
Il viaggio verso il nuovo inizio era incominciato.
Il puzzo era insostenibile, non c’era aria a sufficienza per così tante persone, sembrava di stare in una ciotola di Pwewa wa nazi (*2), andata a male.
Abeba sentiva di essere immersa nei molluschi, erano tutti cosi attaccati, che il sudore faceva diventare gambe e braccia tristi tentacoli che si avvinghiano alla vitalità, speranzosi di non essere scambiati come bestie e di mantenere una certa parvenza umana.
Nella sua testa frastornata dal rumore del semiasse comparivano le immagini sfocate della madre, del seno materno, di una culla fatta con amore, i ricordi contrastavano con l’amaro della solitudine di un carro che più passavano i chilometri più pareva portare verso la bocca degli inferi.
La calura friggeva le opinioni, nessuno aveva voglia di comunicare, in certe occasioni quando viene percepito che non si è considerati diversamente dalle bestie ci si incupisce al punto tale di assumere comportamenti ascrivibili a queste ultime.
Due brocche d’acqua vennero scaraventati contro la compagnia. La bolgia feroce terrorizzo un bambino, che cercò di afferrare le gambe della mamma come se fossero un porto sicuro, ma di tranquillo in quell’arido pomeriggio nemmeno l’ingenuità infantile poteva rimanere indifferente a tanta sofferenza.
Urla e sbraiti per un goccio d’acqua erogata a piccoli sorsi di dignità che evaporavano nell’aria al ritmo dell’afa insostenibile.
Abeba non era colta, non conosceva la geografia, ma avrebbe saputo riconoscere un fusto di Palma da Dattero a chilometri di distanza.
Ella insieme al padre era solita andare a raccogliere i frutti di questo albero, quella tipologia faceva intuire che erano arrivati a ridosso della giungla.
Il clima infatti era leggermente più umido, l’odore denso dell’acqua era vivace nell’aria intrisa di tensione violenta che vibrava al suono del temporale tropicale che copriva i loro lamenti.
Le sospensioni del mezzo si piegarono bruscamente, due uomini fecero scendere il gruppo.
La cortesia era spettatrice come l’avvoltoio che attende il decadimento del suo pasto. Dio non c’era. No, non era presente all’appello, alla conta dei corpi feriti e afflitti da quella tortura.
Non presenziava la stregoneria, c’era solo l’accasarsi della schiettezza rude umana in tutto il suo sadismo.
I piedi feriti a causa delle sporgenze arrugginite del camion sanguinavano e coprivano di rosso le mangrovie della fitta selva, le foglie odoravano di tetano e infezione, il cielo calava sopra l’africa dipingendola di nero.
L’estrema bellezza del paesaggio in forte opposizione alla condizione umana proiettava sulla bianca luna un solo interrogativo:
“Cosa ho fatto di cattivo per meritare questo?”.
I cocchi impiccati alle palme sembravano massi pronti a sfondare la testa del prossimo in ogni istante.
Abeba aggrappa la sua mente ai rami di esperienze passate in cui la felicità scorreva nella sua mente. Essa impazziva per le piccole cose: adorava le farfalle e i loro colori scintillare a mezzogiorno, quando cantano le cicale.
Il tempo sino ai sedici anni era passato allegramente condito da una severa ma dignitosa povertà, ma i conflitti avevano cambiato e sradicato tutto, quando riavvolge il nastro della suo percorso per perdersi nella nostalgia, stoppa la cassetta dei nei suoi neuroni al suo sedicesimo anno, quando la madre le fece sconto di andare a prendere l’acqua al “Buco inospitale” così chiamavano il pozzo al villaggio, per via degli animali selvaggi che erano solito aggirarsi nei paraggi, ma era semplice normalità africana.
La percezione cambia volto lascia la maschera della suggestione ,della distorsione e diventa cruda, cambia forma e entra in gioco la materialità, quella scarna e magra poco incline a sofismi e a prospettive personali, quella cristallina visibile ad occhio nudo, inoppugnabile nella sua purezza.
Le opinioni nella disumanità lasciano il posto alle verità assolute:
Era chiaro che era una situazione orribile, era un fatto che Abeba avesse paura, non c’era spazio per divergenze e punti di vista, era lapalissiano e violentemente vero che era un dramma.
Un uomo qualunque, mentre Abeba si appresta a passare la giornata più devastante del suo tempo terreno, in preda alla sua impressione personale si lamenta, urlando con l’alito gonfio di grappa, alcune frasi nazionalistiche, scagliandosi contro il telegiornale.
Per sua credenza Abeba e chiunque si avvicini ai suoi confini è un pericolo. Esso è immerso in una miriade di pericoli quotidiani reali: recessione, mancanza di lavoro, pochissimi fondi dedicati alla cultura e moltissime altre tematiche, decisamente, più tangibili, ma il suo unico bersaglio, accecato dalla voglia di risolvere quello che reputa il principale problema della sua vita, è paradossalmente la persona più simile a lui, ovvero una personaggio umile con pochi fondi per essere una problematica, ma esso non riesce a non vederla come diversa e ostile, nonostante sia l’ultima delle sue problematiche oggetive.
L’uomo comune vede la sua periferia arrugginita devastata, degradata, sporca, inquinata e pensa che i problemi piovano dal cielo, spesso incurante del fatto che l’avesse abitata lui prima di chiunque altro.
Esso si estromette dalla massa e dai politici come se non fossero lo specchio delle persone da cui merita di essere rappresentato, come se fossero dei marziani estratti da un’argentea navicella spaziale e non personaggi appartenenti alla sua stessa cultura e nazionalità, punta il dito e impreca contro l’esteriorità non vedendo che è sommerso da una valanga di colpe private.
Maledetta percezione, dannata percezione!
La stessa che ha fatto credere ad Abeba che l’Europa era un’oasi di pace, facile da raggiungere. Siamo uguali noi uomini, incredibilmente simili, solo il contesto cambia.
Nonostante, ciò, Abeba continua ad illudersi allo stesso modo dell’uomo qualunque, entrambi irrazionali e fragili bisognosi di abbracciarsi, ma incapaci di comunicarsi amore. Distanti e allo stesso tempo così vicini, peccato non capirsi.
Sembra che nonostante entrambi siano due mezzi di comunicazione identici, le chiamate non riescono a raggiungere mai l’altrui segnale per mancanza di linea, rimanendo, perciò, sconosciuti e sospettosi, guardinghi e impauriti reciprocamente.
Nel mentre:
Mitomani cavalcano l’onda della risposta facile a quesiti di natura complessa, facendo leva sulla paura e sulle percezioni errate delle persone socialmente e culturalmente più deboli, arricchendosi di consenso e potere.
Odio e rancore ballano un giro tondo ossessivo in un silenzio che dovrebbe diventare urlo feroce e unire, invece rimane incompiuto, ucciso e massacrato, colpito e violentato,
esattamente come Abeba, che dopo aver camminato per giorni con profonde piaghe, infezioni ed essere stata abusata da varie milizie, si trova su uno sporco gommone, con l’ultimo centesimo di speranza che tutto possa avere un lieto fine.
Il mare è quiete e tempesta allo stesso tempo, lo sanno bene i primi solcatori dei mari che hanno naufragato con vecchie galee dalle vele spezzate sui neri scogli del Mar Egeo.
Lo comprendono i Vichinghi che hanno subito poderose nevicate nel Mare del nord e hanno patito l’ipotermia e il dolore della pace eterna tra i ghiacci, ora, anche, Abeba lo sa cosa significa morire in Mare.
L’ultimo suo pensiero, non è stato un elaborato sofismo frutto della filosofia contemporanea, piuttosto una forte confusione, tipica del genere umano. Un’unica domanda riecheggia tra la spuma salata e rumorosa:
“Sono davvero colpevole di esistere?”
Anzi, essere esistita, ci ha provato a resistere per sua mamma per il marito, ma quando l’acqua entra in gola con tutta la schiuma e leva l’ossigeno riempendo i polmoni non c’è forza in grado di salvarti.
Abeba è una piuma che fluttua nel dolce libeccio novembrino, l’uomo qualunque, tra bestemmie e pasta al sugo di provincia, guarda il telegiornale esultando come allo stadio, in fondo non ha mai capito la differenza tra vivere e tifare, tra percezione e realtà. Alla fine Abeba e l’uomo qualunque potrebbero andare d’accordo, tutti e due vivono d’istinto e di passioni giuste o sbagliate che siano, ma le basi sono le stesse, se solo qualcuno aiutasse i due ad intendersi, forse, quando il vento si calmerà e il mare diventerà calmo, qualcosa sarà in grado di muovere le acque verso un reale cambiamento, per ora siamo come un saluto da un treno cosi vicini a baciarsi ma cosi veloci nello scappare in direzioni opposte.
note:
(*) Scappa in swhaili.
(*2) Piatto della Tanzania a base di polpo.
Un qualcosa di profondo che mi ha toccato dentro e fatto rivivere ricordi di lontani trascorsi in Benin. Grazie
grazie mille a te :)
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