Monet, la cura e altre chimere
Serendipity, cos’altro poteva essere.
Tutto appariva confuso e dai tratti non delineati. Stavo ancora riflettendo sulle parole lette in questi giorni: Oggettività, schemi valutativi, gli altri riescono a fare meglio e chi più ne ha più ne metta. Ma quei contorni, con tratti così poco marcati a delinearli... ad un tratto presi coscienza che non fossero dovuti a una spasmodica ricerca della verità, ma erano davvero dei tratti di pennello abilmente e impulsivamente gettati sulle tele che stavo fissando da un po’. E quella voce, la cui eco rimbombava così fragorosamente tra le mie meningi, altro non era che l’audio guida che mi avevano così gentilmente fornito all’ingresso del Vittoriano. Ebbene si, ero di fronte a un Monet. Che potesse il defunto suggerirmi qualcosa di cui non avevo trovato traccia nei suddetti testi? Questo fu proprio il motivo del mio indagare. Quindi presi il coraggio a due mani e lasciai che la Serendipity (che non traduco, per evitare di infliggere un duro colpo alla nostra lingua con certe brutture) mi sopraffacesse.
Il turbinio di pennellate mi fece approdare sulle rive del laghetto che il buon vecchio pittore, instancabilmente, riproduceva in ogni suo angolo. Lo aveva fatto costruire appositamente, eppure trascorsero ben 15 anni prima che decidesse davvero di farne la sua musa.
All’ombra del suo cavalletto, continuavo a ripetermi quale fosse il motivo della mia presenza in quel luogo. La domanda che mi aveva scatenato così potentemente l’immaginazione. lasciai che lo sguardo si perdesse sui riflessi accennati sul pelo dell’acqua.
Poi il laghetto lasciò il passo alla Senna.
Mi soffermai sul ponte, che così NON netto si stagliava, sfuggente, al centro della tela. Passò qualche istante, i colori cambiarono, così come la direzione delle pennellate e la luce che se ne rifletteva. Poi cambiò ancora e ancora. Poi arrivò la nebbia e poi di nuovo la luce. Ma il ponte era sempre lì, ancora lì, sempre lo stesso. Oggettivamente lo stesso. Oggettivamente, questo doveva dirmi qualcosa, oggettivamente… o soggettivamente? Le parole continuavano ad assordarmi con il loro accecante profumo e poterle afferrare non era di alcun aiuto, così decisi, all'Alice maniera, di assaporarne almeno qualche frammento.
Mi balzarono alla mente come d’improvviso i miei insegnanti, la mia dolce maestra, i prof delle medie e quelli del liceo. Cos’è che mi era veramente rimasto di loro? E come potevo scoprirlo dall’interno di un quadro? Avrei dovuto aspettare ancora un pochino per avere una risposta. Eppure sapevo fosse nascosta lì, da qualche parte, in un’immagine sempre uguale che continuava a mutare istante dopo istante. Un rumore distolse la mia attenzione e mi ritrovai a osservare il mondo al di fuori del quadro. Presi coscienza del museo e dei suoi ospiti. Percepii il fermento degli abitanti della città nel periodo natalizio. Ma se togliamo la soggettività a tutto questo fermento, come pretendiamo di non esser rottamati da delle macchine?
A spasso con Monet
La nebbia cominciava a diradarsi. Ma Monet continuava a non delineare le sue superfici. Nel commentare il suo “Vétheuil nella nebbia”, qualcuno al tempo ebbe a dire che non rendeva giustizia alla cittadina perché non se ne riconoscevano i contorni. Sono sicuro che molti lo pensino ancora oggi. Solo che in molti lo ritengono un’opera d’arte. Quindi non lo si può più affermare.
Duecentocinquanta volte duecentocinquanta
Duecentocinquanta riproduzioni delle Ninfee, che oggettivamente sono la stessa pianta, ma che soggettivamente si trasformano in 250 sfaccettature. Quale doveva essere quella giusta? La vera opera d'arte. Duecentocinquanta diverse versioni soggettive dello stesso soggetto, rappresentate da una sola soggettività, quante sarebbero potute essere se elaborate da una collettività di 250 soggettività?
Ero veramente così perso nelle dinamiche oggettive da dimenticare che la scuola è altro che schemi e valutazioni? E’ davvero un voto oggettivo che mi ha reso quello che sono? E’ stata la spiccata attinenza alla realtà a fare di Monet quel genio di cui potevo godere ancora i frutti? Le pennellate cominciavano davvero ad avere un senso. Nella loro molteplicità. La luce su di esse cominciava a delinearne i significati, oltre i significanti. Ero veramente sicuro che non fosse la fiducia nell’uomo o nella donna che ci stanno valutando che avrei dovuto recuperare? Cosa ricordavo davvero, i voti che presi negli anni più formativi per la mia personalità, o avevo sfruttato quel periodo, che non tornerà mai più, per assaporare tutto quello che i miei docenti avevano da trasmettermi? Per rubare ogni singolo insegnamento potessero darmi. Di che cos’è che avevo avuto veramente bisogno, in un periodo di forti cambiamenti della mia soggettività: di oggettività; o di una guida, imperfetta forse, ma che nella sua umanità mi mostrasse una delle possibili strade che avrei potuto intraprendere. Continuavano a risuonarmi in testa quelle parole, che nell'adolescenza, l’età in cui noi cambiamo di più “io ero sempre la stessa e scrivevo nello stesso modo”, era davvero possibile? Ipotizziamo anche uno schema, poi a chi sta interpretarlo, chi dovrebbe compilarlo? Cominciavo a percepire l'oggettività come una bella facciata di un palazzo in fiamme. Un palazzo abbandonato da tempo. La nostra ricerca spasmodica di diventare macchine e al contempo il terrore che queste un giorno ci soppiantino.
Da "le mille e un Monet"
Quanto mi piacerebbe vivere in un posto dove quando le persone “fanno”, vengono apprezzate per le 9 cose buone, e non giudicate per l’unica discutibile, da chi non sta facendo. Fare è difficile. Mettersi in gioco lo è ancora di più. Monet era ossessionato dalle sue Ninfee. Non riusciva a dormire. Lui stesso ammette di temere di morire prima ancora di aver trasmesso al mondo tutto ciò che aveva da dare. Curioso! Mi sono ripetuto oggi, perché le stesse parole le lessi tanti anni fa su un CD di Čajkovskij. Vado a memoria ma la frase faceva più o meno così:
Come un orso nel suo buco mi nutro della mia musica. Spero di non morire prima di aver trasmesso al mondo tutto ciò che ho da dargli.
Sconvolgente come due soggettività potessero oggettivamente somigliarsi a tratti.
L’oggettività è una chimera, e quanto prima faremo pace con questa cosa, tanto prima eviteremo l’estinzione. La soggettività è quello che ci rende liberi. Quello che permette agli insegnati di far valere il proprio giudizio. Soggettività e fiducia.
Buona Soggettività a tutti, spero sinceramente riusciate a trasmetterla il più possibile e con l'intensità di questo piccolo capolavoro!
Bel post. Arguto il collegamento tra visione artistica e suggestioni da social. Tuttavia a mio parere bisogna fare una distinzione. La soggettività, come giustamente tu dici, è ciò che fa di noi ciò che siamo e ci distingue dal piattume omologante; è anche quello che in un'esperienza formativa, come la scuola, è in grado di lasciare il segno, sia la soggettività dei docenti, che quella degli studenti. Altra cosa è l'arbitrio, che consente a chi ha una posizione gerarchica giudicante di applicare un semplice "mi piace" o "non mi piace": chi valuta dovrebbe rendere chiari i suoi criteri di giudizio, che poi possono essere condivisi o meno.
Fatto salvo l'immortale adagio per cui "chi non fa non falla", non è automaticamente vero il contrario. No?
Mai detto il contrario appunto. Forse è proprio questo che dovremmo capire.
"Chi lavora, sbaglia", dice il proverbio! :)